La riscoperta di Marlen Haushofer, voce dirompente


di Alice Pisu

“Le persone vanno in rovina per i motivi più disparati, per stupidità oppure per eccessiva prudenza; il primo modo mi sembra più dignitoso, ma non mi appartiene”.

Quando nel 1958 uscì Noi e la morte di Stella, Marlen Haushofer aveva trentotto anni. Scrittrice austriaca anticonformista, sperimentò anzitutto sul piano privato il peso dei compromessi e la necessità di un’emancipazione da ruoli imposti e da limitazioni di espressione, narrati nei suoi testi con una particolare attenzione al contesto borghese del tempo. Il sottotitolo del romanzo, “Racconto di una colpa”, misura il peso che grava sulla narratrice Anna nel ripercorrere il tetro evolversi delle vicende culminato con la morte della diciannovenne Stella. Appena ripubblicata da L’orma con la traduzione di Eusebio Trabucchi, l’opera si regge sulla necessità di elaborare attraverso la scrittura quanto accaduto, una confessione che non assolve, e implica la consapevolezza di responsabilità condivise. Si apre con lo struggimento provato per un uccellino caduto da un nido su un tiglio, simbolo della natura indifesa di chi attenderà invano di essere salvato.

“Perché nessuno mi protegge dal suo pigolio, dalla morte di Stella
e dall’insopportabile rosso dei tulipani sul comò?”.

L’arrivo in casa della giovane “alta, bella, vagamente troppo imponente” e la permanenza in famiglia per un anno (su richiesta di sua madre, amica della protagonista) appare come un corpo estraneo in casa, scompagina gli equilibri domestici già fragili, tra i continui tradimenti di Richard – un marito definito un mostro dall’intelligenza brillante, capace di trasformare in “misfatti gli svaghi del suo corpo assetato di piacere” –, la rassegnazione e finta indifferenza di sua moglie, l’apparente distacco del figlio maggiore Wolfgang e l’ingenuità della figlia minore Annette, totalmente devota al padre, “una bambina troppo felice perché la si possa amare davvero”.
L’inerzia di Stella, aggravata dalla depressione in cui cade, anticipa la sua morte, annunciata sin dalle prime pagine come una fine bella e tremenda al pari di quelle narrate nelle leggende antiche. Anna è consapevole della deriva a cui è destinata la giovane nel diventare momentaneamente al centro di un desiderio predatorio per poi essere presto dimenticata e non avere ragioni per vivere. Sceglie di non intervenire, finge di non accorgersi di quel che accade, con cinismo mostra di non aver mai provato compassione per la sofferenza riconosciuta nella ragazza, di aver sentito sollievo per la sua morte, e di aver sofferto di più per un cactus malandato.

Il titolo originale Wir töten Stella (Abbiamo ucciso Stella), attesta con ancor più forza il senso di responsabilità condivisa nella sorte della giovane, attraverso un romanzo che riflette sul peso della sopportazione, sull’abitudine che grava nelle relazioni, sulla debolezza e la vigliaccheria, sull’orrore che incombe con l’avanzare dell’età, sui piccoli e disperati tentativi di evasione dall’abitudine.


“Ogni minuto ogni secondo ci trasforma e ci allontana da noi stessi”. 

La breve opera indaga il rapporto con la coscienza di una donna che invano cerca di non sentirne il peso, che si concentra su cose irrilevanti, come l’ordine, per imporsi di non vedere quel che accade sotto i suoi occhi e, ormai priva di rabbia, è dominata dall’orrore e dalla consapevolezza di una verità scomoda che appartiene al suo quotidiano.
La profonda originalità del testo risiede nel raffigurare un mondo borghese disgregato e decadente attraverso lo sguardo di una donna cinica e disincantata, egoista, un’antieroina a sua volta vittima di una società opprimente, che identifica una via di sopravvivenza nell’annullamento di ogni forma di empatia verso il prossimo. È dirompente la voce letteraria di Haushofer, che compie una furente critica sociale del suo tempo attraverso lo studio del groviglio di contraddizioni interiori rivelando l’indistinguibilità del bene e del male.

“Doveva essermi successo qualcosa anni addietro, qualcosa che mi aveva lasciata come diminuita, quasi fossi un automa che porta a termine il proprio compito, a malapena ancora soffre e solo per qualche secondo si ritrasforma nella giovane donna piena di vita che è stata un tempo. La commovente linea del collo di Wolfgang, le rose nel vaso bianco, un refolo di vento che gonfia le tende,
e d’improvviso sento di essere ancora viva”.

L’uscita del romanzo arriva appena tre anni dopo l’esordio di Haushofer, che ottenne un ottimo riscontro dalla critica, anche se il vero successo della scrittrice arrivò tredici anni dopo la sua morte. La brevità dell’opera incise sul rifiuto ricevuto dalla casa editrice Zsolnay, che aveva un'opzione sui suoi testi. Sarà poi la casa editrice Bergland Verlag a pubblicarla.

Per comprendere non solo la portata del testo ma per collocare in senso più ampio la produzione letteraria di Marlen Haushofer nel contesto storico del dopoguerra e della Guerra Fredda e osservarne le ripercussioni a decenni di distanza, è utile soffermarsi sul percorso personale di una scrittrice ritenuta oggi tra le voci austriache maggiormente rilevanti del secondo Novecento accanto a Ingeborg Bachmann e a Ilse Aichinger.

Le vicende che segnarono la crescita di Marlen la portarono a sviluppare un profondo senso di sfiducia verso il prossimo, nelle relazioni sentimentali in particolare, e la inibirono nel mostrare apertamente le proprie opinioni o nel frequentare assiduamente circoli letterari e contesti utili a fare emergere il suo talento. Le sue opere sono venate da aspetti ricorrenti, tra cui il riferimento alla dimensione infantile, teatro di visioni idilliache, percezione di protezione, intenso rapporto con la natura (visse in una località nell'Alta Austria immersa nel verde in una imponente casa forestale per via dell’impiego di suo padre come guardiaboschi) e al contempo presagio di drammi successivi. Visse un rapporto intenso e complicato con i genitori, con un padre irascibile e una madre severa e intransigente, dei quali offrì nei suoi libri ritratti ambivalenti. La repressione subita nel compiere gli studi nella scuola privata delle Orsoline a Linz e poi in un liceo segnò una profonda depressione adolescenziale che, in aggiunta alle sue cagionevoli condizioni di salute, avrebbe accompagnato la scrittrice per il resto della sua vita. Dedicò due opere ai difficili anni del collegio. Il pessimismo e il rigore educativo cattolico la portarono a diventare atea, come dichiarò in età adulta. Dopo la maturità fu obbligata a partire per svolgere il servizio del lavoro del Reich, assegnata al campo RAD di Christburg vicino a Elbing, al confine tedesco-polacco: le mansioni domestiche e il duro lavoro nei campi la temprarono portando anche i suoi genitori a ricredersi sulla sua vulnerabilità fisica.
Per Marlen il ritorno a casa fu un nuovo trauma nel prendere atto che la dimensione domestica non rappresentava più un luogo di protezione e sicurezza dal resto del mondo come un tempo. Nel periodo successivo, con gli studi a Vienna, poi interrotti, e le nuove amicizie, la giovane intensificò la corrispondenza e la frequentazione con un giovane conosciuto tempo prima nella Prussia Orientale, da cui ebbe un figlio nel 1941, ma con cui la relazione si interruppe ben presto. Durante la gravidanza conobbe il suo futuro marito, Manfred Haushofer, che si adattò a una situazione ritenuta sconveniente per l’epoca, e da cui ebbe un altro figlio due anni dopo. Marlen lasciò alla madre di una sua amica il compito di crescere il suo primo figlio e per quattro anni il loro rapporto si ridusse a fugaci visite a causa dei numerosi traslochi (Vienna, Praga, Graz, Steyr), dei continui cambiamenti legati agli incarichi come dentista ottenuti da suo marito, e delle incertezze dovute alla situazione storica e politica. Questo aspetto ritorna con contorni diversi anche nel romanzo Noi e la morte di Stella in merito alla descrizione di una madre poco amorevole disposta a far crescere sua figlia presso un’altra famiglia.
La scoperta della seconda gravidanza, la necessità, dopo la fine della guerra, di ricongiungersi al primo figlio – che ricevette il cognome del padre acquisito ma che non fu mai accolto con calore nemmeno dai nonni per la colpa originaria che rappresentava nel contesto cattolico tradizionale di appartenenza – simboleggiarono una nuova sfida per Marlen. Era sempre più consapevole di volersi dedicare alla scrittura ma si sentiva incapace di far conciliare le sue reali aspirazioni con i suoi doveri. Visse nella costante tensione tra desideri, aspirazioni legate allo studio e alla scrittura, e percezione di impossibilità, a causa degli oneri legati a ruoli imposti e delle aspettative famigliari e sociali.
La repressione della vera natura di Haushofer traspare dalle sue opere che si fanno portatrici di un affanno collettivo insostenibile nel compiere ingrandimenti su donne che, per contrastare l’annullamento personale, fantasticano sulla disobbedienza e in alcuni casi la attuano. La prospettiva adottata nei romanzi e nei racconti è spesso limitata a uno sguardo interiore: lontana dalla narrazione dell’eredità di devastazione e precarietà lasciata dalla guerra, è propria di figure che attuano tentativi di esularsi dal resto e che sovente non prendono una posizione politica, in linea in tal senso con un introiettato senso di inadeguatezza.
A seguito della scrittura delle prime novelle apparse nel 1946 su riviste e quotidiani, Marlen Haushofer si dedicò anche a storie per l’infanzia, in alcuni casi per ragioni strettamente economiche dato che, nonostante l’apparente benessere, la famiglia aveva difficoltà a gestire il bilancio domestico.

In Noi e la morte di Stella l’autrice descrive la condizione di impotenza vissuta da una donna intrappolata in una prigione dorata da cui in realtà sceglie di non evadere pur potendo farlo: in questo aspetto risiede la parte di responsabilità che assegna alla sua protagonista e a sé stessa. Anna accetta la situazione per non privarsi delle sole cose che le danno reale gioia: la vista sul giardino, la possibilità di scambiare tenerezze con il figlio prediletto, la sua amata solitudine, la tranquillità della sua stanza. Il resto per lei non ha importanza, e al contempo è consapevole che attuare una ribellione rispetto al concetto di proprietà nel rapporto con suo marito le costerebbe caro per la vendetta che animerebbe l’uomo.
Marlen visse un rapporto complicato con suo marito, con cui finì per separarsi pur continuando a convivere, per poi risposarsi proprio nell’anno dell’uscita di Noi e la morte di Stella, giustificandosi dicendo che "a Steyr non si può divorziare". Secondo quanto riportato dalla sua biografa Daniela Strigl, chi la conosceva la descriveva come una donna schiva, poco incline alla socialità, al di fuori del forte legame con suo fratello Rudolf e dello stretto rapporto di confronto letterario e di sostegno affettuoso durante la malattia con gli intellettuali Hans Weigel, Elfriede Ott, Oskar Jan Tauschinsky e Jeannie Ebner.
Discreta nel vestire, amante del blu, rifuggiva ogni appariscenza e preferiva lasciare che la famiglia si svagasse fuori per restare da sola in casa, dedicarsi alla scrittura e tradurre le sue inquietudini tra pagine che sapeva che non sarebbero state lette dalle persone a lei più vicine (che avrebbero potuto riconoscersi nei suoi personaggi).
Come dichiara per voce della sua protagonista Anna: “Chi pensa deve sempre rinunciare a vivere mentre chi vive non ha bisogno di pensare”.
Il suo romanzo più noto, La parete, uscito nel 1963 e pubblicato in Italia da E/O, trova ancora una volta nel taglio diaristico confessionale lo strumento d’elezione per descrivere la profonda solitudine di una donna che, attraverso una ridefinizione inizialmente forzata dagli eventi avversi, scoprirà la sua vera natura nel lato selvaggio della sopravvivenza. Il rilievo dell’opera dai sottili risvolti fantastici risiede nella scelta di identificare in una parete trasparente il confine che separa la vita dalla sua assenza apparente. L’improvviso disinteresse per il resto del mondo e l’attestazione di un’indipendenza rivoluzionaria svincolata da norme morali si mostreranno salvifici e necessari. Ancora una volta Haushofer sceglie di dare forma a una cronaca per studiare i meccanismi alla base dell’osservazione di una paura profonda da insabbiare, cancellare, tra interrogativi esistenziali in merito alle continue trasformazioni a cui sono soggetti gli esseri umani nello sfiorare l’animalità per precipitare in un abisso.


“Già oggi non sono più la persona che ero una volta. Come potrei sapere in quale direzione sto andando? Forse mi sono già allontanata da me stessa al punto da non accorgermene più”.La portata del testo, adattato per il cinema nel 2012 dal regista austriaco Julian Pölsler, risiede anche nel profondo studio sociale sulla generale incapacità umana di prendere consapevolezza delle conseguenze di azioni deleterie, nella generale convinzione – dichiarata anche in Noi e la morte di Stella – che non valga la pena guardarsi indietro. Paragonato da una parte della critica al Robinson Crusoe di Defoe, La parete conferma la straordinaria capacità di narrare l’alienazione dal mondo intorno e da sé, la rivendicazione di una libertà estrema da ogni condizionamento culturale.
“Forse la parete non era che l’ultimo tentativo di un essere torturato che doveva evadere, evadere o impazzire”.
Nella stesura dei racconti e romanzi di Haushofer si percepiscono chiare influenze nella lettura di Simone de Beauvoir. La rivelazione della sua produzione da parte dei movimenti femministi degli anni Settanta e Ottanta si lega al riconoscimento di un manifesto per i diritti, contro le limitazioni d’espressione e gli obblighi legati alla maternità.
Riscoprire oggi le opere di Marlen Haushofer, dalla novella Il quinto anno (1952) a La mansarda (1969), permette di riflettere sulle ripercussioni individuali e collettive in condizioni di assenza di libertà personale. In tal senso si colloca la scelta di scrutare i risvolti del mondo borghese e il suo opposto, un luogo e un tempo privi di condizionamenti dove sperimentare i confini dell’essere.
Il ricorso alla natura per Haushofer non rappresenta un rifugio incondizionato – come, per estensione, il costante riferimento alla dimensione dell’infanzia –  ma uno spazio di confronto privo di barriere e difese in cui l’individuo può esprimere la sua vera indole e schermarsi dall’indifferenza.
Il rilievo delle sue opere risiede nella raffigurazione di un quotidiano crudele con vicende prive di tensione rette su un linguaggio distaccato, utile a esplorare l’isolamento e i vincoli, l’incapacità di emancipazione nel ridotto spazio di espressione riservato alle donne, le incoerenze rispetto a valori vacui.
Si dichiara nella peculiare dimensione linguistica la reale irriverenza che Haushofer si concede attraverso la scrittura: la traduzione dell’impassibilità come difesa a fronte di un’oppressione radicata e inestinguibile attraverso cui misurare l’inaudito e provare invano a rintracciare il senso del vivere. Emblematica l’ultima annotazione del suo diario, del 26 febbraio 1970, prima della morte avvenuta a quarantanove anni per un tumore alle ossa.
“Anche se ti fosse data un’anima – essa non desidererebbe altro che un sonno profondo senza sogni. Il corpo non amato non farà più male. Sangue, carne, ossa e pelle, tutto questo sarà un mucchietto di cenere; e anche il cervello finalmente la smetterà di pensare. Per questo sia lodato Dio, che non esiste. Non ti preoccupare – tutto sarà stato invano – come per tutti gli uomini prima di te. Una storia del tutto normale”.